Silvio e i tre angeli nella cascina del Sassorigato – di Fausto Marchetti

IMG_20151008_174519

Le lancette fosforescenti del quadrante sul comodino segnano le sei di un altro mattino di Natale. Silvio si è svegliato presto, sguscia dalle coperte, si veste al buio per non disturbare la moglie, scende le scale con passo di gatto, infila cappotto, scarponcelli, cuffia e guanti per affrontare il freddo dell’esterno, sulla porta di casa guarda il cielo, la luce dell’alba si farà attendere più di un’ora.
La cascina del Sassorigato dista poco più di un centinaio di metri da casa; marcando con le sue orme la cavedagna imbiancata raggiunge la meta consueta dei suoi giorni di festa. Lui è il nipote prediletto, erede degli zii Lauri, Gasper e Nocente che in meno di un anno gli hanno lasciato la loro dimora per sempre.
La temperatura sottozero, durante la notte, ha trasformato le goccioline della nebbia negli aghi e scaglie di ghiaccio della galaverna cristallina che ha rivestito la siepe di biancospino e la recinzione metallica della proprietà. Nell’aprire e chiudere il cancello, la battuta ferro su ferro fa cadere in terra una bianca polvere gelata. Per la prima volta dopo cinquant’anni non ci sono luci nella casa. Non c’è vita in quel luogo. 
Già da qualche anno le voci erano andate scemando. Per i tre ottantenni il governo della stalla era diventato un lavoro troppo pesante e così gli attrezzi agricoli e la legna da ardere avevano preso il posto delle mucche. Il pollaio era rimasto vuoto da quando il grido – Pine, Pine, Piiine – di Lauri per chiamare le galline alla razione giornaliera di grano e pastura si era trasformato in un – Oooh – di disperazione, con tanto di occhi sbarrati e mani infilate nei capelli ricci della permanente antracite, alla vista delle quindici teste mozzate dai barbari ladri che avevano fatto bottino nel serraglio durante la notte. Barone, il cocker spaniel, dopo i tre funerali si era lasciato morire davanti al cancello nell’attesa del non ritorno dei padroni. I gatti se ne erano andati da soli: viziati dal cibo fornito dagli abitanti della casa erano diventati troppo pigri per cacciare i topi rifugiati nel fienile e nel granaio.
Silvio attraversa l’aia lastricata di pietre grigie di Sarnico, passa sotto il portico, raggiunge la porta della casa, apre con la chiave in suo possesso ed entra in cucina. Il silenzio nella stanza vuota dalle presenze familiari lo fa rabbrividire più della temperatura esterna.
Fin da piccolo, il suo arrivo era accolto dalle esternazioni vocali di gioia della zia, che facevano accorrere i fratelli occupati nei lavori della stalla, dell’orto o della vigna; una gara a tre per abbracciare e baciare il nipote prediletto. Man mano che il bambino era cresciuto in età, i baci erano stati sostituiti da pacche sulle spalle, una sedia tirata avanti per una bicchierata di vino bianco o spuma e la solita frase – Favorisci – quando il tavolo era apparecchiato di cibo genuino.
Dalla tenera età, ha imparato da tutti e tre l’arte e mestiere del contadino, dalla raccolta delle uova nel pollaio alla guida del trattore, dalla semina nell’orto alla produzione del vino.
Per riportare la calda atmosfera dei giorni andati, Silvio va e torna dalla stalla con una fascina e un canestro di legna per il fuoco nel camino. In pochi minuti, le fiamme crepitanti dei tralci di vite illuminano l’ambiente, e quando anche i tondelli di platano han preso fuoco, il calore si diffonde. Sulla cappa trapezoidale manca il grappolo di vischio che nel periodo natalizio pendeva sopra i santini e i ritratti delle anime in cornice che ora impolverati occupano il piano della mensola.
Come una civetta a stomaco vuoto in un vecchio rudere dopo la grandine e il temporale che hanno limitato la sua caccia, il collo ritirato tra le ali e gli occhi dolci come lampade a petrolio, Silvio, rincantucciato nella nicchia sinistra del camino, scruta oltre la finestra in attesa di un segno, una stella cadente per esprimere un desiderio che si realizzi in un’esplosione di voci e di suoni.
La sua mente è lontana, vaga nei luoghi della fanciullezza racchiusi nella memoria da un sentimento di profonda nostalgia e desiderio. Appoggia la testa al muro caldo e si addormenta quel tanto che basta per far rivivere la vita come si svolgeva nei giorni del buontempo.
Nello spazio di pochi minuti, l’impressione di una mano lieve accarezza il suo capo, ed ecco apparire lì davanti al fuoco, seduti uno a fianco all’altro i tre fratelli: Innocente, Laura e Gaspare.
Gli esseri umani continuano a vivere dopo la morte, grazie all’immaginazione e ai sogni di chi li ha amati, e lui li ha amati. I tre angeli sono scesi dal paradiso per stare con lui abbastanza tempo per dargli la gioia  del ritrovamento delle cose che credeva perdute per sempre. Immagini e voci impressi nella memoria fanno rivivere le storie che amava da bambino, e, prima di tornare da dove sono venuti gli sussurrano un messaggio: «Fai volare gli angeli».
Come se la mano, di cui sentiva in principio del sogno la pressione sul suo capo, gli avesse dato una forte spinta contro il muro del focolare, si desta in uno sbalzo; grattandosi la testa indolenzita lascia la sua postazione, raggiunge la credenza, apre l’antina in noce, recupera tra le tazzine del caffè e la zuccheriera ciò che gli è stato suggerito nel sogno: una piccola giostra in lamierini di ottone dorato. Posa sul tavolo il piccolo marchingegno e, con un fiammifero, accende le quattro candeline inserite nelle ghiere della base metallica. Il calore delle fiammelle fluisce verso l’alto soffiando l’energia sufficiente a mettere in rotazione le palette inclinate della girandola montata sull’albero centrale e trascinare nel girotondo gli angioletti saldati ai quattro angoli della raggera a croce.
Le astine penzolanti, collegate con un anellino alle trombe che ogni angioletto porta alla bocca, battono a turno su due calotte semisferiche. Il tintinnio argentino delle campanelle e il gioco d’ombre sulle pareti della stanza creano un’atmosfera magica.
– Volate miei dolci angeli, solcate il cielo e vegliate sempre su di me.
Il primo raggio di sole del mattino di Natale, risalendo dal fondo della notte, trafigge la finestra e si posa sulla statuina del Bambino di Betlemme in fissa dimora sul centrino tessuto ad uncinetto posto sul piano della credenza. La minuscola lucciola brilla sui solchi della vita, due mani a conchiglia cullano il Re dei Re.

Fausto Marchetti, il Falconiere

*Anche questo testo fa parte della pagina natalizia di scriveregiocando.

Pubblicità

2 pensieri su “Silvio e i tre angeli nella cascina del Sassorigato – di Fausto Marchetti

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.